Carmelo Pirrera
LE SERE DEL VINO
D’un solo vino bevemmo, in giro, alla Mensa del Mondo:
Uno o due turni prima di noi caddero ebbri.
(Omar Khayyam)
Dal volume Antigruppo ‘75 curato da Nat Scammacca, ricopio: “un sorsetto di vino e una poesia, una poesia e un sorsetto di vino e si scola entrambe le bottiglie mentre io penso che domani devo di nuovo comprare il vino…”
Nat, nel tracciare di me un affettuoso ritratto, esagera per quel che riguarda la quantità di vino, non per il resto: questo avveniva all’inizio degli anni ‘70, i primi della mia residenza a Palermo, ormai anch’essi “favolosi” e così somiglianti, oggi, ai veri paradisi, tali perché rimpianti, perché perduti. Non era raro che la sera, lasciato l’ufficio dove allora lavoravo, non avendo una famiglia alla quale fare ritorno, passassi a trovare Nat e – vino a parte – mi fermassi a discutere di poeti e di poesia.
In quella sua casa di Palermo – Via Duca della Verdura, 27 – dove mi sarei scolate bottiglie e bottiglie di vino, ho avuto modo di incontrare personaggi singolari della vita culturale palermitana, due poeti, Crescenzio Cane e Pietro Terminelli (“Vedrai, Carmelo, due grandi poeti con dei culi grandi così!”) sempre in polemica tra loro; letterati d’oltre Oceano, di passaggio, e tra questi Jack Hirschman e Kristen Wetterhan, in viaggio verso la Russia, madre delle loro e nostre delusioni; Andrew Donus che in italiano sapeva dire solo ”ciao” e, felice, me lo diceva ogni volta che mi incontrava anche nel corso della stessa mattinata; un regista radiofonico, italiano stavolta, il cui nome non merita di essere qui ricordato, che con disinvoltura si appropriò di un mio lavoro sull’Antigruppo e, senza cambiarne una sola virgola, lo trasmise per diverse puntate…
Avrebbe voluto pure farsene un bel libricino, ma gli rovinai il progetto pubblicando alcuni capitoli su un giornale che miei amici pittori facevano a Caltanissetta.
Niente di male, erano anni di grande euforia, ci sentivamo abbastanza ricchi da sopportare quel genere di furti. Noi avevamo la poesia e la portavamo (finalmente!) nelle strade, tra la gente contagiata dal nostro stesso entusiasmo, che ci ascoltava con interesse. In una scuola di Giarre, ricordo ragazzi meravigliati e lieti di accostarsi a un poeta in “ carne e ossa”, come se sino allora avessero immaginato i poeti in sembianze di fantasmi esangui o larve d’invertebrati con corone d’alloro sulla testa. A Trecastagni, dove prendemmo parte a una festa con recital conclusivo e spettacolo d’opera dei pupi, Fortunato Pasqualino, fine letterato con un paladino nel cuore, ci disse in confidenza che ogni poeta è un “antigruppo”.
C’è di vero che, forse senza accorgercene, avevamo dato una nuova faccia alla poesia, non più sfogo per senili paturnie o languori di maestrine; non più dotto passatempo di abati sapienti e servili cortigiani, ma a volte grido di rabbia – La mia casa non è come la tua!, urlava nei suoi versi Crescenzio Cane – denuncia e protesta.
Rabbia, denuncia e protesta cercando di non scadere nella retorica del comizietto (rischio sempre in agguato), senza divorziare dalla Poesia, anche se più di una volta ci accadde, nella foga del nostro “impegno”, confondere Catullo coi Gracchi, il poeta coi tribuni.
All’apparire dei due robusti tomi di Antigruppo ‘73, stampati a Catania e curati da Santo Calì e Vincenzo Di Maria, dalle colonne di un quotidiano di Palermo talune scimmiette ammaestrate che si cibavano di teneri virgulti, guardando con disprezzo quelle pagine dove non figuravano poeti che somigliassero al Meli coi suoi “surciddi di testa sbintata” o al Metastasio, miopi di fronte al fatto che quelle pagine potessero accogliere “accanto ai motivi tecnici e alla naturale predilezione per una materia circoscritta addirittura motivi extraletterari di critica e di testimonianza sociale”, sentenziarono trattarsi di “naiffato buzzurro”.
Eppure, nei due volumi c’erano alcuni nomi di poeti di tutto rispetto: Antonio Corsaro, tra i nomi più belli della poesia religiosa, autore di una premiata Storia dei papi in versi, e Calogero Bonavia, l’autore de I servi, che aveva scritto, riferendosi a Gabriele D’Annunzio, in epoca che sul vate di Pescara non gravava ancora un pregiudizio di marca ideologica: “Sono passati venti anni. La vita di oggi mi dà un’altra gioia non meno amara. Ho potuto ascoltare con attenzione profonda un linguaggio che è sempre stato straniero e più che barbaro per me, a dispetto della sua rara bellezza”.
Non si vogliono qui assumere a “Padri nobili” dell’Antigruppo Corsaro, Bonavia e altri nomi illustri – ospiti occasionali nelle pagine di Antigruppo 73 – ma dimostrare come personalità di tutto rispetto non disdegnarono di esporsi in compagnia di poeti più giovani, meno conosciuti, ma non certamente dei buzzurri.
Si potrebbero fare altri nomi ai quali la frettolosa etichetta non si addice: Danilo Dolci, Giuseppe Zagarrio e Fiore Torrisi, già, quest’ ultimo, apprezzato da Salvatore Quasimodo; Cesare Zavattini e Roberto Roversi; Lawrence Ferlinghetti e Robert Bly che da buon americano denunciava le nefandezze targate USA. in Corea e nel Vietnam, in pagine dal titolo eloquente: Madre denti finalmente nuda!
E c’era, soprattutto, quel Santo Calì, poeta di buon livello, ancora tutto da scoprire e rileggere, che scriveva nel dialetto di Linguaglossa non per ignoranza della lingua italiana, come a qualche altro è avvenuto, ma per avversione e atavico risentimento verso l’Italia, a suo dire matrigna, avversione che risaliva, per quanto ci è dato intendere, a molto prima dei nostri astratti o concreti furori, forse ai tempi che briganti dell’Urbe venivano da queste parti a rubare grano e sale, marchiavano gli schiavi sulla faccia per riconoscerli a colpo d’occhio, consideravano la Sicilia il loro granaio, tracciavano, marcandolo con le lagrime e il sangue degli schiavi, il percorso della Via Salaria: vale a dire ancor prima delle guerre servili (219 a.C.) alle quali si lega “la leggenda più buia che mai la disperazione abbia scritto”.
Scrivendo a Roberto Roversi, Santo Calì, a proposito di Antigruppo 73, diceva: “questo libro-non-libro zavattiniano vuole essere una registrazione in atto – tutt’altro che pignolescamente programmata o arbitrariamente selettiva – della nostra attività di poeti, scrittori, artisti e saggisti operanti nelle estreme propaggini del Mezzogiorno d’Italia, laddove l’espoliazione garibaldino-savoiarda delle nostre riserve economiche e culturali è stata più dura e rapace di quella borbonica…”.
E scrivendo a Cesare Zavatini:
“Credimi Zav, non è un libro di cultura: E ammesso – per assurda ipotesi- che lo sia, bisognerebbe anzitutto chiarire (ricorrendo magari ai lumi di Umberto Eco)
la giusta semantica del termine usato e abusato, a proposito e a minchia, da milioni di uomini che presumono di essere colti perché hanno avuto la ventura (o disavventura) di essere andati a scuola.”
Santo Calì, che insegnava latino e greco in un liceo, non meritava davvero di essere definito “buzzurro” da qualche studentello bocciato alle medie, ma forse si trattò di una discutibile forma di rivalsa. Il poeta, comunque, non se la prese perché nel dicembre precedente l’uscita dei due volumi Antigruppo ’73 moriva nella sua casa di Linguaglossa, sulle falde dell’Etna.
La sua Notti longa – apparsa in due ponderosi volumi qualche anno dopo la sua morte – non è soltanto il dramma personale e privato assunto a denominatore della propria esistenza, ma, assieme a esso, denuncia di un ritardo storico, è la notte del sonno della Storia che come il sonno della Ragione produce i suoi mostri, qualcosa di diverso della proustiana “penombra che abbiamo attraversato”; qualcosa di diverso e dolorosamente segnato da una necessità che sconfina nell’assurdo: vera notte interminabile, vero buio, gorgo di disperazione, discesa agli inferi.
Rabbia e pianto incrinano il cupo lamento per Rocca Ciravola. E la Storia ne esce sconfitta, col suo corredo di menzogne, la sua coorte di eroi, santi e navigatori; di ladri, di buffoni e biscazzieri.
Naturalmente non si vuole sostenere che nelle pagine di Antigruppo ‘73 fosse tutto oro colato. C’erano sì la rabbia, la protesta che da sole, come ognuno sa, non fanno poesia. Ma non sono rare le volte che a poesia tali pagine pervennero, per non dire di una ardita sperimentazione che, partita dalla Sicilia, di cui era ben nota la carenza di strutture e di incentivi culturali, metteva insieme varie voci del mondo (e nel mondo apprezzate) in un progetto dove il pretesto ideologico sebbene insistito, finiva con assumere un ruolo secondario.
Tornando a rileggerle bisogna riconoscere, a onore del vero, che su esse incombeva un’aura rosso-rosata, una inclinazione – non il consenso acritico di irreggimentati pennivendoli – verso sinistra, che a volte ci faceva zoppicare o sembrare zoppi, che avrebbe indispettito più di un Berlusconi.
Persino religiosi, regolarmente muniti di tonaca e cilicio, tonsurati da vescovi probabilmente poi assurti alla gloria degli altari, erano lì a protestare con noi contro le ingiustizie del mondo (Non voglio un Cristo con occhi di gatto!). Si trattava di una scelta di campo, di un impegno che nella varietà delle sue sfumature tale rimaneva. Eravamo tutti comunisti? Ma per niente: troppo liberi e indisciplinati per essere inquadrati nelle file di un qualsiasi reggimento. Non voglio dire che di comunisti non ce ne fossero, ma c’erano pure dei preti, e se fossimo stati tutti comunisti o altra cosa omogenea saremmo stati “gruppo” e non “Antigruppo”.
Per quanto riguarda me, sin dagli anni ’40, frequentavo le elementari, un maestro di buon naso notò che i miei temi “puzzavano” di socialismo. Non eravamo tutti comunisti, ma comunisti spesso ci credettero e per tali ci condannarono negli anni del “reflusso”, quando il muro di Berlino cadde, quando boriosi bottegai si mutarono in “imprenditori” e si scoprì che Peppino Stalin non era stato uno stinco di santo e faceva fucilare i suoi nemici. Crudele, spietato e feroce era stato Stalin, perciò avevi torto tu, zolfataro di Riesi o Sommatino, contadino di Delia condannato a un turismo forzato negli Eldoradi germanici o in Belgio al festival di Marcinelle; tu, bracciante di Maletto (comunista come lui), a volere un più equo salario, maggiore sicurezza nel lavoro, maggiore dignità nella vita. Avevi torto e non bastava ad attenuarlo il fatto che il venerdì santo, a piedi scalzi e in lagrime conducevi per le strade del tuo paese la croce di Cristo o il corpo martoriato di un Cristo povero chiuso nell’urna dell’ipocrisia; comunista anche tu, come Stalin che fucilava i suoi nemici, li deportava nei lager dell’abiezione, per il popolo costruiva case bruttissime, senza persiane verdi e fioriere ai davanzali, e non capiva niente di architettura! Ci vuole una bella faccia tosta, con compagni così – dittatori sanguinari e assassini – ad andare in giro chiedendo pane e lavoro!
Di certo non aveva tutti i torti chi ci sconsigliava – e non erano pochi – di lasciar perdere di combattere contro i mulini a vento, proposito nobile quanto inutile, perché il mondo è andato sempre così, coi ricchi e coi poveri, con chi comanda e chi obbedisce, chi mangia e chi digiuna. Lasciare perdere e dedicarci magari, e con maggior profitto, a indagare le origini e la nascita del “cacciucco” (ontologia, eziologia e metamorfosi) che non è soltanto una zuppa di pesce, come ritengono le anime semplici, ma probabilmente una metafora marina di cui va cercato il senso.
Vero è che molto in seguito ci sarà perdonato e ci saranno regalate patenti di innocui giullari e menestrelli, trascorsi gli esordi polemici e le illusioni di un’epica corale, ma qualcosa ancora mi rode e mi induce a stare dalla parte degli ammaccati Don Chisciotte anziché da quella di tronfi lacchè e superbi leccaculi le cui effigi accade di incontrare sulle pagine di autorevoli organi di stampa buoni per pulire i vetri o avvolgervi la lattuga (qui le scuse alla lattuga sono d’obbligo).
Mi accorgo che non mi è possibile parlare di Nat Scammacca, delle sere del vino cagliato oramai nel ricordo, senza parlare dell’Antigruppo, di quella stagione di impegno, e viceversa.
In effetti si trattò di un’unica inscindibile cosa e tra i molti che a quel movimento aderimmo – ciascuno portandovi dentro suoi limiti e sue peculiarità – Nat ne fu il vero padre, ne coltivò e condivise con noi gli entusiasmi e, poi, da solo, più a lungo, ne soffrì la delusione per quanto di quel progetto – utopistico sin che si vuole – rimase irrealizzato: i Piccoli figli di Dio continuarono a essere figliastri della Fortuna. Oppure, nella ritrovata solitudine della sua casa alle falde di Erice, ebbe a considerare che se da un canto la bellezza dei viaggi consiste nello stesso viaggiare e le mete e i progetti contano sempre meno e sono soltanto pretesti illusori, dall’altro la rivelazione di non poter più essere quello che si è stati può produrre, come ritengo abbia prodotto, un crollo che in Nat fu un crollo silenzioso.
Sfrattato dal “sogno d’oro”, come avviene di norma a tutti i grandi sognatori (e metti nel mazzo anche Gandhi e Martin Luther King), non volle più scrivere versi, rifiutandosi di divenire – dopo essere stato il cantore della rivolta e della speranza – il poeta della disfatta che ritenne propria e generazionale,
Al “dopo” incombente, che è baratro e falla vistosa nel muro dell’umana sapienza crepato dall’incertezza e dalla paura, non rimaneva che opporre bibbie, paradisi possibili e altri splendidi surrogati, perché le parole della speranza non bastano più, sei solo, e da soli si muore.
La nostra avventura di uomini in rivolta, com’è nella migliore tradizione, finì con l’essere tradita e non sappiamo da chi, probabilmente si è tradita da sola per sopravvenuta stanchezza, per carenza di fede, per un normale processo di macerazione di cui non avevamo coscienza.
Qualcuno dei compagni ci lasciava per sempre, altri, dopo apparizioni fugaci, scomparivano assorbiti nella poltiglia dei quotidiani doveri, e altri ancora, lecitamente infedeli, seguivano il loro estro e diverso destino. Il verbo refluire, già sostegno della filosofia dei gamberi, si stava coniugando da solo. D’altra parte, per qualcuno che all’inizio era sembrato tra i più arrabbiati, l’avventura veniva archiviata tra i bellissimi errori di gioventù: abbiamo scritto dei versi, disegnato pupi e, come tutti i ragazzi, abbiamo giocato.
Nel Sindacato Nazionale Scrittori al quale aderimmo, forse con un eccesso di speranza, e non certo per un bisogno di “patente“, le nostre istanze parvero spesso barricadere, non soltanto per la proposta di un’editoria alternativa che non convinse nessuno e apparve inattuabile a quanti scriventi si erano con fatica e lunghe corvée, conquistata la possibilità – prossima o remota – di uno spazio. Già allora correva voce che sebbene una buona pagina evangelicamente, come la buona azione, premia se stessa, la sua bontà non è che l’ultimo dei requisiti per accedere ai fasti della “Editoria che conta”: occorre un amico bene ammanigliato o, meglio ancora, appartenere alla casta della televisione, essere personaggio “visibile” (anche con ruoli umili e modesti come venditore di pignatte, detersivi o materassi): perché l’autore “invisibile” magari scriverà meglio ma vende di meno. Sono le dure leggi del mercato, dura lex sed lex.
L’idea di una nostra cooperativa che pubblicasse nostri libri presentava, in effetti, molti limiti oggettivi e destava più di un sospetto: eravamo sì convinti assertori di un’editoria alternativa, ma se Einaudi, Feltrinelli o Mondadori ci avessero fatto un cenno non l’avremmo (e volentieri) mandata al diavolo?
A parte ciò, non si trattava soltanto di stampare libri, che di buoni stampatori ne esistono anche da queste parti, ma di proporli e imporli al mercato librario attraverso un’idonea organizzazione, e nessuno di noi, mastri di penna sprovveduti di pur minime virtù mercantili, era bravo per queste cose. La proposta riscosse qualche momentanea simpatia, ma si trattò di simpatia umana per noi portatori di un’idea nuova e velleitaria, a suo modo sessantottesca, che si accordava a quelle che correvano in quei giorni pazzi e felici. La Fantasia non era ancora andata al potere ma si era candidata a farlo.
A ripensarci, non ritengo, comunque, che volendo fare una cooperativa editoriale o con altri interessi dovessimo delegarne il Sindacato o chiedergli l’imprimatur, la benedizione e il consenso.
Fu a quel punto, credo, che Nat, testardo e ingenuo, diede vita alla Cooperativa Antigruppo che fu un nuovo ponte tra la Sicilia e gli States, una ulteriore occasione per conoscere poeti come Laura Boss, Maria Gillan, Arthur L. Clemens ma anche i nuovi poeti scozzesi Duncan Glenn, Hugh Mac Diarmid, Alexander Scott:: un poeta che piange per Jayne Mansfield che accomuna, per analoga fine, una sciarpa che le stringe la gola, a Isadora Duncan che nella poesia La danzatrice morta, balla al ritmo dei settenari ai quali anch’io, nella traduzione, ho messo mano.
La Cooperativa Antigruppo, fortemente voluta da Nat, prosegue l’opera iniziata con la Terza pagina di Trapani Nuova, intensifica i rapporti con letterati di oltre oceano e io stesso sono chiamato a presentare a Erice il libro di Laura Boss Stripping sulla sponda dell’Hudson, mentre Emanuele Schembari presenterà Luce d’inverno di Maria Gillan. I due libri, realizzati col concorso della Cross-Cultural Communications e tradotti in italiano da Nina e Nat Scammacca, figurano nella collana alla quale anche le edizioni Il Vertice, da me dirette, forse misero mano. Non lo so, lo leggo sulla copertina dei due volumetti e so che era nelle generose abitudini di Nat citarci tutti, coinvolgerci e darci spazio nelle sue iniziative.
Parlo della Cooperativa Antigruppo dagli inconsistenti esiti commerciali per dire di ulteriori occasioni d’incontro cercate e trovate da Nat Scammacca con l’aiuto solerte di Nina, sua moglie, dopo che Nat aveva lasciato Palermo e, Ulisse sedentario, rimpiangendo forse le antiche procelle, si era ritirato nella sua villa alle falde di Erice a parlare con le sue rose. Ne parlo per dire della sua generosità, quel suo non negare spazio a nessuno, e ne fanno fede le copertine dei suoi libri, zeppe di nomi magari di persone che col libro non hanno niente a che fare, rese visibili e “pubblicizzate” per il poco o molto che era nelle sue possibilità.
Ho detto prima che non mi è facile parlare di Nat senza dover parlare dell’Antigruppo e viceversa, e, ripensandoci, non me ne dolgo se consideriamo il lavoro vera misura dell’uomo, e, nel caso di Nat, il suo lavoro di operatore nella cultura e quello del poeta, che, a detta di Quasimodo, è operaio dei sogni, e per Giosuè Carducci un “grande artiere”.
“Operaio di sogni” o ”grande artiere”, Nat trovò spesso accenti dolcissimi quando nei suoi versi indugiava a parlare degli affetti familiari, rivelando della sua sensibilità risvolti fragili e profondi, o quando l’approssimarsi del Natale gli apriva nell’anima ampi spazi di neve, e la nostalgia (“che brutta cosa ad averla, signore!”) riusciva a non farsi pianto: “Oggi non frugherò vecchie memorie / non oggi – stiano pure a scintillare / solo per gli altri i lumi di Natale. / Non debbo ora fermarmi – per sognare. // Ma come impedirò che questo sangue / scandisca i canti di un tempo? Se resto / senza pensare, risento chi sono: / uno che – alla deriva – muta presto…”
Più che un accenno, uno studio approfondito di cui onestamente non mi ritengo capace, meriterebbero le poesie di Nat, raccolte in tre volumi sotto il titolo di Ericepeo, che viene ad ampliare lo spazio degli interessi estetici e ideali a prima vista destinato a un fare poesia per spinta populistica o impegno sociale. Il titolo, a mio avviso, svela un ulteriore aspetto di Nat Scammacca, del quale Calogero Bonavia apprezzava la delicatezza dei sentimenti familiari, come se nel cuore dell’uomo in rivolta abitasse, con Prometeo che ruba il fuoco all’Olimpo per farne dono agli uomini, un’anima tutta mediterranea che subiva il fascino degli antichi miti e delle storie che hanno avuto per scenario questa parte del mondo e il nostro mare, a esse partecipando: “Ho cantato che sono greco. / Ho sbagliato?”
Gli sforzi per organizzare un convegno sulle “Origini siciliane dell’Odissea” secondo una intuizione di Samuel Butler ripresa da L. G. Pocock (The sicilian origin of the Odyssey), ne sono un segno inequivocabile e denunciano una convinzione, condivisibile o meno, che attrasse a Trapani, a discuterne, studiosi siciliani e del Nuovo Mondo.
Ma, tassello non secondario in questa figura composita, contraddittoria e molteplice di poeta, non va taciuto un sentire sommesso di valenza esistenziale che ritroviamo in più pagine, dove la rivolta sembra ansiosa di mutarsi in consenso verso la vita, la terra e i suoi doni, un amore per le piccole e semplici cose, ciò si coglie specialmente in talune delle magistrali traduzioni dall’inglese, di sue poesie, a opera di Emanuele Mandarà che di Nat Scammacca fu lettore sensibile e accorto.
Di vivaci polemiche, letture e discorsi – a ricordarle – si alimentavano le sere del vino sulle quali Nat scherza in quel libro del ‘75, suo quanto nostro, ed è nello stesso libro che mi attribuisce qualità “aristocratiche” che non riconosco per mie, sebbene debba ammettere, di non riuscire, malgrado la buona volontà, a bere Coca-cola direttamente dalla lattina, fare ressa e sgomitare ai buffet, apprezzare certi “capolavori” che la tivù produce e la tivù esalta come opere di shakespeariana ascendenza, per non dire dei bicchieri di carta che mi danno tristezza: limiti o virtù insufficienti, comunque, a fare di uno come me un aristocratico, sia pure con attenuanti “proletarie”.
“Devo dire che mentre Ignazio Apolloni è un aristocratico in camicia bianca con animo di proletario, Alan Ladd, alias Carmelo, è un proletario dall’animo aristocratico”, annota Nat Scammacca.
Questa storia dell’aristocratico mi perseguita, assieme alla nomea di superbo forse perché associo all’idea di “uomo” quella di “animale a schiena dritta” e provo disprezzo – a volte pena – per tanti boriosi leccaculi, fieri dei loro successi da nulla.
Le zuffe per un recital organizzato da Paul Vangelisti da trasmettere via radio negli States, e forse mai andato in onda, non mi videro tra i protagonisti. “Per me una bella fanciulla e un liuto sul lembo del prato son monete sonanti: a te la cambiale del Cielo!” avrebbe detto Omar Khayyam. Anche per me una fanciulla, con o senza liuto, valeva e vale più di mille improbabili ed eventuali americani che ascoltino senza capire, più di una cambiale firmata da Paul Vangelisti.
Ma Nat mi voleva bene come aristocratico e come proletario, forse perché con me entrava nel discorso dell’Antigruppo (dovrei dire nella polemica) la realtà di una Sicilia interiore e il mondo delle miniere dal quale provengo. “La miniera gli si incupisce nell’anima, inghiotte la letteratura oleografica di una Sicilia felice, solare, ellenica, mediterranea, comunque mitica: rimane appena un lembo di cielo azzurro, lassù in alto a difendere in extremis la speranza di Ciàvola…” aveva scritto Santo Calì a proposito di alcune mie pagine, dove di miniere si parlava, e non per “sentito dire”, apparse in quella stagione che fu, non soltanto per Nat, Gianni Diecidue e Rolando Certa, una stagione d’amore.
Fu stagione di entusiasmi in cui, ad alcuni di noi, parve possibile mutare il mondo e le sue sorti e che ciò potesse esser fatto da noi, con gli strumenti fragili di cui disponevamo: spade di legno, anzi di cristallo contro la corazza della cupidigia, dell’avidità, dell’egoismo e della stupidità – in poche parole, il sistema, l’ establishment, come lo chiamava Nat.
Ci abbiamo provato per ritrovarci “come maghi che abbiano scordata la formula, a guardare dentro bocce di cristallo i volti dei ragazzi d’una volta assieme ai quali non salvammo il mondo…e il mondo, intanto, strappatoci di mano, sfera di neve, sfera di fuoco e nebbia, se ne è andato lontano. Rimane un ricordo di unghie spezzate, un sapore di zolfo, la sconfitta e una sequela vana di brusii a spiegare perché non si è felici”.
Mi accade ancora di citarmi, per antico vizio, e vorrei tornare a quella casa di Palermo – Via Duca della Verdura, 27 – la casa di Nat, dove leggevo miei versi e mi scolavo il suo vino, non due bottiglie ma quasi, per parlare all’amico venutomi a mancare di progetti, di libri e di poesie: conversazioni che raramente si mutarono in dispute, anzi qualche volta cedettero alle istanze del gioco, al bisogno di allentare le tensioni: – Carmelo, se tu dovessi buttare in mare uno dei tuoi libri, quale butteresti?
– Ne butterei uno dei tuoi! – rispondevo.
Si metteva a ridere. Ci accordavamo, poi, per buttare in mare il libro di qualcuno che non era dei nostri, meglio se autore di strombazzati best seller (l’arte della scrittura non era ancora pervenuta alle glorie e ai fasti odierni, e pensare di buttare in mare un libro era ancora proposito possibile, bizzarro sin che si vuole ma possibile).
A volte chiedevo scherzando: – Ne buttiamo uno di Sebastiano Addamo?
– No, Sebastiano è amico mio.
Finiva che in mare non ne buttavamo nessuno, ce ne siamo riempite le case, gli scaffali, la vita; li abbiamo amati, li abbiamo letti, ne abbiamo scritto alcuni affidandoli – senza buttarli – al mare magnum della carta stampata sperando che qualcuno li leggesse, possibilmente con amore. Forse dovremmo chiedere scusa al mondo che è rimasto tristemente il mondo di prima: un posto dove seminare parole e piantare speranze che stentano a crescere.
Lunedì di fine ottobre, è un giorno chiaro – non è autunno ancora, l’estate indugia, si allunga e distende pigra sul litorale, gli alberi che incontriamo sulla strada che porta a Trapani conservano, verdi, tutte le loro foglie – è un giorno chiaro e a Nat sarebbe piaciuto guardare dalla sua terrazza verso le isole, a est. L’ho accompagnato, invece, per la strada che s’inerpica e sale verso il cimitero di Erice e ho pensato che con lui finivano un’avventura e un sogno.
L’Antigruppo finiva nell’archivio della storia minore e la stessa America rimpiccioliva allontanandosi dal mio e nostro orizzonte.
Parlo di quell’America ricordata da Giaime Pintor, che “non ha bisogno di Colombo. Essa è già scoperta dentro di noi, è la terra a cui si tende con la stessa speranza e la stessa fiducia dei primi emigranti e di chiunque sia deciso a difendere a prezzo di fatiche e di errori la dignità della condizione umana”; parlo di quell’America dei poeti che con Nat avevano portato una ventata di vitalità che ci aveva distolto dal secolare lamento: con noi Ciàvola non si era limitato a scoprire la luna, ma l’aveva reclamata pretendendo che fosse anche sua: “E perché no la luna / se è luna / non abbassare gli occhi, non tremare / non avere paura del domani / ed accogliere il cielo / nelle mani? “
Ciàvola, con noi, nel reclamare la luna urlava la propria rabbia, lo sdegno e il dolore contro classi e individui che lo avevano defraudato dell’infanzia e persino della speranza, e avevano inchiodato gli orologi delle nostre chiese, saldandone a fuoco le lancette, a un’ora dei giorni precedenti quelli della Rivoluzione francese.
Ed è mentre scrivo questo che mi accorgo di parlare di un’America che è sì quella ricordata da Giaime Pintor, scoperta dentro di noi, è quella dei poeti che sentiamo amici ma, paradossalmente, è anche un’altra: quella che Robert Bly, un americano e non un comunista prevenuto, definirà nelle pagine dell’Antologia Antigruppo 73 “Madre denti finalmente nuda” denunciandone la ferocia belluina, un’America che scopriamo con dolore.
L’impegno sociale o la coloritura ideologica da esso assunta non devono fare pensare all’Antigruppo come a una setta di carbonari biliosi e immusoniti, ché spesso nel nostro fare e nei nostri discorsi trovarono spazio astromalie e favole felici nelle quali Ignazio Apolloni profuse la sua inesauribile vena con esiti divertiti, divertenti e a volte corrosivi.
Il piacere discreto per la sperimentazione, l’invenzione ludica e linguistica, l’ironia dei nostri discorsi erano il lievito e il sale di un fare talvolta impertinente, per non dire di certe fescennine licenze presenti soprattutto nelle pagine dialettali di Santo Calì, alle quali Franco Di Marco e io dedicammo maliziosa attenzione: c’un corpu di trincettu ziu Giuvanni…
Una mia parodia di Divina Commedia, limitata a sei o sette canti, dove, in terza rima, prendevo in giro alcuni dei nostri amici, entusiasmò tanto Nat da indurlo a stamparla in appendice del terzo volume del suo Ericepeo.
Ci furono – e come negarli? – momenti di ingenuità, qualche incomprensione, qualche equivoco, un lieto disordine. Per qualcuno ci furono errori e forse fu tutto un errore, ma quell’ errore amammo e lo vivemmo con onestà facendo di esso lo scopo nobile delle nostre esistenze, la nostra verità.
Ora tutto tornava nell’ordine e la “Restaurazione” temuta e avversata da Giuseppe Zagarrio, diveniva un fatto incontestabile. Non rimaneva che seppellire i nostri morti, licenziare ambizioni e progetti, trovarci una comoda nicchia nella “poltiglia” degli istituti.
Mentre con Nicolò D’Alessandro, accodati al corteo, salivamo verso Erice, ho pensato che della nostra utopia (tale nome a volte assume la speranza) qualcuno nei giorni a venire ne avrebbe ancora parlato confondendo i nostri con i casi altrui, sbagliando luoghi, nomi e date, mischiando titoli di libri, attribuendoci opere, meriti o colpe che non ci appartengono, togliendoci o donandoci qualcosa. Una rivista di buon nome, ad esempio, già parlando dell’Antigruppo siciliano non fa un solo nome di quanti in qualche modo con esso ebbero a che fare. Non cita Rolando Certa, Santo Calì o Nat Scammaca ma riporta i nomi di alcuni poeti completamente estranei – a volte ostili – al movimento.
Così va il mondo, perciò varrà la pena, ricorrendo a collaudate formule, di raccomandare: “Raccontate di noi senza malanimo”.
Vorrei aggiungere che Aldo Gerbino, in un capitolo dedicato all’Antigruppo, si sofferma a parlare soltanto di me, unitomi al movimento quando era già attivo da qualche anno, e non di personaggi che ne avrebbero avuto maggior diritto come Nat Scammacca, Santo Calì, Rolando Certa o Ignazio Apolloni, Crescenzio Cane o Pietro Terminelli (che mai mi fu amico), legittimamente considerati i “padri fondatori”.
Dico questo cosciente della mia presenza anomala in seno al movimento, non avendo avuto mai niente contro il Gruppo ’63 o altri gruppi: ognuno canta (o scrive) come sente, come sa, come può; presenza anomala, ripeto, se una sera recitando a Trapani, mentre tutti si davano un gran da fare a parlare di rivoluzione, di lotte, di sangue, io, pigro pantofolaio, insofferente a tanta rivoluzione recitata o cantata in piazza, a tanta lotta, tanto sangue, con la complicità di Ignazio Navarra e obbedendo ai miei istinti pacifisti, leggevo poesie d’amore – “…il giorno dopo la fine del mondo / era il cielo senza una nuvola”- che facevano imbestialire Pietro Terminelli nei cui versi ipermetrici spesso regalava titolo di fascista o di pennivendolo a chiunque, senza escludere Cesare Pavese, Giacomo Matteotti o Antonio Gramsci.
“Vomitevole”, era di solito il commento di Terminelli ai miei versi; io i suoi non li commento: non li ho mai capiti.
E mi piace aggiungere che nel 1990, incontrando a Pisa, in occasione di un premio letterario attribuito al mio libricino di versi La farfalla di Brodskij, Michele Perriera, quasi mio omonimo ed esponente di spicco del Gruppo 63, di cui persino i fondatori si erano già scordati di averlo fondato e perché, non solo non litigammo ma ci trattammo con affettuosa cortesia, e parlammo di Ignazio Buttitta che al telefono ci scambiava l’uno per l’altro.
Non vorrei dare l’impressione di sottovalutare l’apporto, in termini di contributi vivaci e vitali, dato al movimento da altri sodali e compagni. E qui mi sovvengono nomi ai quali va il mio affettuoso ricordo, quali Antonino Contiliano, che con maggiore giudizio ha trattato dell’Antigruppo, Giovanni Lombardo, Federico Hoefer, Ignazio Butera, e ancora Franco Di Marco e Nicola Di Maio, protagonisti di una non insolita polemica intestina, culta, garbata e feroce, di quelle frequenti in un gruppo alla rovescia (così lo definì Cesare Sermenghi) che era, per l’appunto, un “antigruppo”.
Per quel che mi riguarda, le idee che ho portato ed espresso in seno al movimento erano, senza mutarne una virgola, quelle che avevo coltivato negli anni trascorsi a Caltanissetta, dove sono nato e vissuto per quasi quarant’anni, città, a sentire Marco Bonavia, dove la gente votava “come un sol prete” e dove avevo frequentato, oltre a Marco, Antonino Cremona, Oscar Carnicelli e gli amici di Nuovo Sud: una minoranza che assieme ai ragazzi del Re d’Aremi – pittori in buona parte – vivacizzava la vita della cittadina.
Dalle pagine di Orsa Maggiore, diretta da Marco Bonavia, negli anni ’50, io stesso, come mio padre ebbe a rimproverarmi, stavo per dichiarare guerra all’Inghilterra, sfidando il generale che governava Trieste, allora contesa tra gli italiani e gli slavi. Sempre a Caltanissetta, avevo conosciuto e frequentato la gente della miniera alla quale mi vanto di appartenere: “quelli che non comprano il pane, ma lo scavano sotterra con affanno, tra i macigni di gesso e di zolfo”. Voglio dire che avevo tutti i numeri per essere accolto da Nat come “uno dell’Antigruppo”, sebbene qualcuno provasse a obbiettare che non ero palermitano e qualche altro non mi trovasse sufficientemente marxista, a riprova che malgrado pretese europeiste restiamo tenacemente attaccati ai nostri campanili e quest’Italia – “Ahi, serva Italia, di dolore ostello! “ – rimane ancora tutta da fare.
Intanto è vero che non ero e non sono palermitano, anche se a Palermo, nel ’76, durante un tentativo di rapina all’ufficio postale, mi hanno sparato e ferito a morte, anche se vi ho trascorso buona parte della mia vita.
Anch’io, se così si può dire, di città me ne porto una nel cuore, ne ho respirato l’aria, assorbiti gli umori. Ogni tanto vi torno per visite veloci: un libro, una mostra o la morte di qualcuno. Vi sono nato, ma questo non significa niente: si nasce un po’ dappertutto, si nasce dove si può.
Un tempo, tornando, mi capitava di incontrare degli amici, si stava un po’ insieme, si prendeva il caffè, ma non si può dire che nel separarci entrassimo in crisi: sia io che loro ci eravamo abituati al fatto che fossi divenuto un forestiero, e tale mi sento ancora un po’ dappertutto.
Da qualche tempo, la mia pigrizia cerca scuse, accampa pretesti per non tornarvi, sarà che incontro sempre meno conoscenti e degli amici che vedevo al bar o in piazza Garibaldi nessuno me ne sa dire niente. Persino alcuni bar e ristoranti di una volta hanno chiuso bottega o cambiato padrone. Dietro il banco facce nuove che ti guardano e non ti conoscono, barman indifferenti… commessi scorbutici.
La città cristallizzata nel nostro ricordo muta ogni giorno, non si somiglia come a noi più non somiglia l’immagine che incontriamo nello specchio.
Forse è nei sogni che, però, questa città –ferma e mutevole – per la quale, come ho detto, non muoio di nostalgia, torna più insistente, quasi a far valere un diritto al quale la ragione vuole opporsi. I miei sogni, infatti, si svolgono in quei luoghi che mi videro ragazzo, per quelle strade che conosco (o conoscevo) tanto bene, popolate di gente che chissà ora dov’è. Forse si tratta soltanto di morti ai quali il mio sognare regala ancora una effimera possibilità di esistere.
Ricordo che una volta, a Natale, invitai a Caltanissetta, dove avevo casa, Nat e Nina Scammacca.
A Nat che aveva girato il mondo, la piccola cittadina piacque, la chiesa del Collegio (S. Agata) con la sua gradinata gli ricordava un po’ Barcellona. Gli feci conoscere alcuni dei miei amici nisseni: gente che scriveva o dipingeva. Nat mi cedette tutta intera la “terza pagina” di Trapani Nuova che riempii con loro poesie e disegni, un racconto di Nino Di Maria. Di quella pagina ne possedevo ancora una copia qualche anno fa e la regalai alla biblioteca di Sommatino (Caltanissetta) che conserva gli scritti di Nino Di Maria, l’autore de Il cammino della speranza, che come me, e prima di me, e meglio di me aveva scritto sulla vita degli zolfatari.
Molti avranno veduto in Tv il bel film Il cammino della speranza che Pietro Germi trasse dal racconto di Nino Di Maria. Un bel film che a distanza di anni riesce a commuoverci e farci piangere. Ma pochi avranno fatto caso che né nei titoli di testa né in quelli di coda, dove sono presenti i nomi degli amministratori delegati, degli elettricisti, dei fornitori delle calzature, di segretari e vicesegretari della produzione, di assistenti alla regia e atri con incombenze minori, di guardarobieri, sarti e lustrascarpe, di mastri d’ascia, fabbri e muratori, manca il nome dell’autore del racconto come fosse notizia irrilevante.
Forse perché Nino Di Maria non faceva parte di un qualche “gruppo”, non risultava iscritto a un qualche Ordine privilegiato (quello degli speziali?) ed era, a sua insaputa e ante litteram, anch’egli uno dell’Antigruppo, uno di quelli di cui critici, militanti o meno, dicono: “Ma cosa vuole quello lì che non s’è fatto nemmeno il Classico?!”.
Qualcuno lo ha detto persino per Quasimodo.
Anche di queste piccole offese e viltà del sistema a volte si parlava nelle sere lontane, le sere del vino, quando passavo a trovare Nat nella sua casa di Palermo, Via Duca della Verdura, 27.
La chiave la teneva nascosta sotto un vaso all’ingresso, appena scese le scale, in modo che se qualche amico ne avesse avuto bisogno avrebbe potuto trovarla.
Da Le sere del vino – Nat Scammacca e la stagione dell’Antigruppo,
Ed. Quaderni di Issimo, Palermo, 2008