CARMELO PIRRERA

Carmelo Pirrera

LE SERE DEL VINO

 

 

D’un solo vino bevemmo, in giro, alla Mensa del  Mondo:

Uno o due turni prima di noi caddero ebbri.

 

                                                (Omar Khayyam)

 

 

Dal volume Antigruppo ‘75 curato da Nat Scammacca, ricopio: “un sorsetto di vino e una po­esia, una poesia e un sorsetto di vino e si scola en­trambe le botti­glie mentre io penso che domani devo di nuovo com­prare il vino…”

Nat, nel tracciare di me un affettuoso ri­tratto, esagera per quel che ri­guarda la quan­tità di vino, non per il resto: questo avveniva all’inizio degli anni ‘70, i primi della mia resi­denza a Palermo, or­mai anch’essi “favolosi” e così so­miglianti, oggi, ai veri paradisi, tali per­ché rim­pianti, perché per­duti. Non era raro che la sera, la­sciato l’ufficio dove allora la­vo­ravo, non avendo una famiglia alla quale fare ri­torno, pas­sassi a trovare Nat e – vino a parte – mi fer­massi a discu­tere di poeti e di poesia.

In quella sua casa di Palermo – Via Duca della Verdura, 27 – dove mi sa­rei scolate botti­glie e botti­glie di vino, ho avuto modo di incon­trare perso­naggi sin­go­lari della vita culturale palermitana, due poeti, Crescen­zio Cane e Pie­tro Termi­nelli (“Vedrai, Car­melo, due grandi poeti con dei culi grandi così!”) sempre in po­lemica tra loro; letterati d’oltre Oceano, di pas­sag­gio, e tra questi Jack Hir­schman e Kristen Wetterhan, in viaggio verso la Russia, ma­dre delle loro e nostre delu­sioni; Andrew Donus che in ita­liano sapeva dire solo ”ciao” e, fe­lice, me lo diceva ogni volta che mi in­contrava anche nel corso della stessa mattinata; un regista radio­fo­nico, ita­liano sta­volta, il cui nome non merita di essere qui ricordato, che con disin­voltura si ap­propriò di un mio la­voro sull’Antigruppo e, senza cam­biarne una sola virgola, lo tra­smise per di­verse pun­tate…

Avrebbe voluto pure far­sene un bel libri­cino, ma gli rovinai il pro­getto pubbli­cando al­cuni capitoli su un gior­nale che  miei amici pit­tori facevano a Calta­nis­setta.

Niente di male, erano anni di grande eu­fo­ria, ci sentivamo ab­ba­stanza ric­chi da sop­por­tare quel ge­nere di furti. Noi ave­vamo la poesia e la porta­vamo (final­mente!) nelle strade, tra la gente conta­giata dal nostro stesso entusia­smo, che ci ascol­tava con inte­resse. In una scuola di Giarre, ri­cordo ragazzi mera­vi­gliati e lieti di ac­co­starsi a un poeta in “ carne e ossa”, come se sino allora avessero immagi­nato i poeti in sem­bianze di fantasmi esangui o larve d’inverte­brati con corone d’alloro sulla te­sta. A Tre­casta­gni, dove pren­demmo parte a una festa con recital conclu­sivo e spetta­colo d’opera dei pupi, Fortu­nato Pasqua­lino, fine letterato con un pala­dino nel cuore, ci disse in con­fidenza che ogni po­eta è un “antigruppo”.

C’è di vero che, forse senza accorger­cene, ave­vamo dato una nuova fac­cia alla po­esia, non più sfogo per senili paturnie o lan­guori di mae­strine; non più dotto pas­satempo di abati sa­pienti e ser­vili corti­giani, ma a volte grido di rabbia – La mia casa non è come la tua!, urlava nei suoi versi Crescenzio Cane – de­nuncia e prote­sta.

Rabbia, denuncia e protesta cercando di non sca­dere nella retorica del comi­zietto (ri­schio sempre in ag­guato), senza di­vor­ziare dalla Poe­sia, anche se più di una volta ci ac­cadde, nella foga del nostro “impe­gno”, con­fondere Catullo coi Gracchi, il poeta coi tri­buni.

 

All’apparire dei due ro­bu­sti tomi di Anti­gruppo ‘73, stampati a Ca­tania e cu­rati da Santo Calì e Vincenzo Di Maria, dalle co­lonne di un quoti­diano di Pa­lermo ta­lune scimmiette ammae­strate che si ciba­vano di te­neri virgulti, guardando con di­sprezzo quelle pagine dove non figu­ravano poeti che somi­gliassero al Meli coi suoi “sur­ciddi di testa sbintata” o al Meta­stasio, miopi di fronte al fatto che quelle pa­gine potessero accogliere “accanto ai motivi tecnici e alla naturale pre­dilezione per una materia circo­scritta addirit­tura motivi extraletterari di cri­tica e di testi­mo­nianza so­ciale”, senten­ziarono trat­tarsi di “naif­fato buzzurro”.

Eppure, nei due volumi c’erano alcuni nomi di poeti di tutto ri­spetto: An­tonio Cor­saro, tra i nomi più belli della poesia re­li­giosa, autore di una premiata Storia dei papi in versi, e Ca­logero Bo­navia, l’autore de I servi, che aveva scritto, rife­rendosi a Ga­briele D’Annunzio, in epoca che sul vate di Pe­scara non gravava  ancora un pre­giudizio di marca ideolo­gica: “Sono pas­sati venti anni. La vita di oggi mi dà un’altra gioia non meno amara. Ho potuto ascoltare con atten­zione pro­fonda un lin­guag­gio che è sempre stato stra­niero e più che bar­baro per me, a dispetto della sua rara bel­lezza”.

Non si vogliono qui assumere a “Pa­dri no­bili” dell’Antigruppo Corsaro, Bo­na­via e altri nomi illustri – ospiti occasionali nelle pagine di Antigruppo 73 –  ma di­mo­strare come persona­lità di tutto rispetto non disdegnarono  di esporsi in compa­gnia di poeti più giovani, meno cono­sciuti, ma non certamente dei buzzurri.

Si potrebbero fare altri nomi ai quali la frettolosa etichetta non si ad­dice: Da­nilo Dolci, Giu­seppe Zagar­rio e Fiore Torrisi, già, quest’ ultimo, ap­prez­zato da Sal­vatore Quasi­modo; Ce­sare Za­vattini e Roberto Ro­versi; La­wrence Ferlinghetti e Robert Bly che da buon ameri­cano denun­ciava le ne­fan­dezze targate USA. in Co­rea e nel Vietnam, in pa­gine dal ti­tolo elo­quente: Ma­dre denti final­mente nuda!

E c’era, soprattutto, quel Santo Calì, po­eta di buon livello, an­cora tutto da sco­prire e ri­leg­gere, che scri­veva nel dialetto di Lin­gua­glossa non per igno­ranza della lin­gua italiana, come a qualche altro è av­ve­nuto, ma per av­ver­sione e ata­vico ri­senti­mento verso l’Italia, a suo dire matrigna, avver­sione che ri­saliva, per quanto ci è dato intendere, a molto prima dei nostri astratti o concreti fu­rori, forse ai tempi che bri­ganti dell’Urbe ve­ni­vano da que­ste parti a ru­bare grano e sale, marchiavano gli schiavi sulla fac­cia per ricono­scerli a colpo d’occhio, consi­dera­vano la Sici­lia il loro gra­naio, trac­cia­vano, mar­candolo con le la­grime e il sangue de­gli schiavi, il percorso della Via Salaria: vale a dire an­cor prima delle guerre ser­vili (219 a.C.) alle quali si lega “la leg­genda più buia che mai la di­spe­ra­zione abbia scritto”.

Scrivendo a Roberto Roversi, Santo Calì, a proposito di Antigruppo 73, diceva: “questo li­bro-non-libro zavattiniano vuole es­sere una regi­strazione in atto – tutt’altro che pignole­scamente programmata o arbitraria­mente selet­tiva – della no­stra attività di po­eti, scrittori, arti­sti e saggisti operanti nelle estreme propaggini del Mezzo­giorno d’Italia, laddove l’espoliazione garibal­dino-savoiarda delle nostre ri­serve eco­nomiche e culturali è stata più dura e rapace di quella borbonica…”.

E scrivendo a Cesare Zavatini:

“Credimi Zav, non è un libro di cul­tura: E ammesso – per assurda ipotesi- che lo sia, bi­so­gnerebbe anzitutto chiarire (ri­correndo ma­gari ai lumi di Umberto Eco)

la giusta seman­tica del termine usato e abu­sato, a proposito e a mi­n­chia, da milioni di uomini che presu­mono di es­sere colti per­ché hanno avuto la ventura (o di­sav­ven­tura) di essere andati a scuola.”

 

Santo Calì, che insegnava latino e greco in un li­ceo, non meri­tava dav­vero di essere defi­nito “buz­zurro” da qualche stu­dentello boc­ciato alle me­die, ma forse si trattò di una di­scutibile forma di ri­valsa. Il po­eta, co­mun­que, non se la prese per­ché nel di­cembre pre­ce­dente l’uscita dei due volumi Anti­gruppo ’73 moriva nella sua casa di Linguaglossa, sulle falde dell’Etna.

La sua Notti longa  – ap­parsa in due pon­de­rosi volumi qual­che anno dopo la sua morte – non è sol­tanto il dramma per­sonale e privato as­sunto a denomi­na­tore della propria esi­stenza, ma, assieme a esso, de­nuncia di un ri­tardo sto­rico, è la notte del sonno della Storia che come il sonno della Ragione produce i suoi mo­stri, qual­cosa di diverso della prou­stiana “penom­bra che ab­biamo attraversato”;  qualcosa di diverso e dolo­ro­sa­mente segnato da una necessità che sconfina nell’assurdo: vera notte inter­minabile, vero buio, gorgo di di­sperazione, di­scesa agli in­feri.

Rabbia e pianto incrinano il cupo la­mento per Rocca Ciravola. E la Storia ne esce scon­fitta, col suo corredo di menzogne, la sua coorte di eroi, santi e navigatori; di la­dri, di buffoni e bi­scaz­zieri.

 

Naturalmente non si vuole sostenere che nelle pa­gine di Antigruppo ‘73 fosse tutto oro colato. C’erano sì la rabbia, la protesta che da sole, come ognuno sa, non fanno poesia. Ma non sono rare le volte che a po­esia tali pa­gine pervennero, per non dire di una ardita speri­mentazione che, partita dalla Sicilia, di cui era ben nota la  carenza di strutture e di incentivi cultu­rali, metteva insieme varie voci del mondo (e nel mondo apprezzate) in un progetto dove il pretesto ideologico sebbene insi­stito, finiva con assumere un ruolo secon­dario.

Tornando a rileggerle bisogna riconoscere, a onore del vero, che su esse in­combeva un’aura rosso-rosata, una inclinazione – non il consenso acritico di irreg­gimentati pennivendoli – verso sinistra, che a volte ci faceva zop­pi­care o sem­brare zoppi, che avrebbe indispettito più di un Berlu­sconi.

Per­sino religiosi, regolarmente mu­niti di tonaca e cili­cio, tonsu­rati da ve­scovi pro­babil­mente poi assurti alla glo­ria degli al­tari, erano lì a prote­stare con noi con­tro le in­giustizie del mondo (Non voglio un Cri­sto con oc­chi di gatto!). Si trattava di una scelta di campo, di un impe­gno che nella va­rietà delle sue sfumature tale rima­neva. Era­vamo tutti comunisti? Ma per niente: troppo liberi e indi­sciplinati per es­sere in­qua­drati nelle file di un qualsiasi reggi­mento. Non vo­glio dire che di co­muni­sti non ce ne fos­sero, ma c’erano pure dei preti, e se fossimo stati tutti co­muni­sti o altra cosa omo­genea sa­remmo stati “gruppo” e non “Anti­gruppo”.

Per quanto riguarda me, sin dagli anni ’40, fre­quentavo le elementari, un mae­stro di buon naso notò che i miei temi “puzzavano” di socia­lismo. Non eravamo tutti comunisti, ma comu­nisti spesso ci credettero e per tali ci condanna­rono negli anni del “re­flusso”, quando il muro di Berlino cadde, quando bo­riosi bottegai si muta­rono in “imprenditori” e si sco­prì che Pep­pino Stalin non era stato uno stinco di santo e faceva fu­ci­lare i suoi nemici. Crudele, spietato e feroce era stato Stalin, perciò avevi torto tu, zolfataro di Riesi o Somma­tino, contadino di Delia con­dan­nato a un turi­smo forzato negli Eldoradi germanici o in Belgio al festival di Marci­nelle; tu, brac­ciante di Ma­letto (co­munista come lui), a volere un più equo salario, mag­giore sicu­rezza nel lavoro, maggiore di­gnità nella vita. Avevi torto e non ba­stava ad atte­nuarlo il fatto che il ve­nerdì santo, a piedi scalzi e in lagrime condu­cevi per le strade del tuo pa­ese la croce di Cristo o il corpo martoriato di un Cristo po­vero chiuso nell’urna dell’ipocrisia; comuni­sta anche tu, come Stalin che fu­cilava i suoi ne­mici, li de­portava nei la­ger dell’abiezione, per il popolo co­struiva case brut­tis­sime, senza persiane verdi e fio­riere ai davanzali, e non ca­piva niente di ar­chitet­tura!  Ci vuole una bella faccia tosta, con compagni così – dittatori san­guinari e as­sassini – ad andare in giro chiedendo pane e la­voro!

Di certo non aveva tutti i torti chi ci scon­si­gliava – e non erano pochi – di la­sciar per­dere di combattere contro i mulini a vento, proposito nobile quanto inu­tile, perché il mondo è andato sempre così, coi ricchi e coi poveri, con chi co­manda e chi obbedisce, chi mangia e chi di­giuna. La­sciare perdere e dedi­carci ma­gari, e con maggior profitto, a inda­gare le origini e la na­scita del “cacciucco” (ontologia, eziolo­gia e metamorfosi) che non è soltanto una zuppa di pesce, come ritengono le anime semplici, ma probabilmente una metafora marina di cui va cercato il senso.

Vero è che molto in seguito ci sarà per­do­nato e ci saranno regalate patenti di innocui giullari e mene­strelli, trascorsi gli esordi po­le­mici e le illusioni di un’epica co­rale, ma qual­cosa ancora mi rode e mi in­duce a stare dalla parte degli ammaccati Don Chi­sciotte anziché da quella di tronfi lacchè e superbi leccaculi le cui ef­figi ac­cade di incon­trare sulle pagine di auto­revoli or­gani di stampa buoni per pulire i ve­tri o avvol­gervi la lat­tuga (qui le scuse alla lat­tuga sono d’obbligo).

 

Mi accorgo che non mi è possibile parlare di Nat Scammacca, delle sere del vino ca­gliato oramai nel ricordo, senza parlare dell’Antigruppo, di quella stagione di impe­gno, e viceversa.

In ef­fetti si trattò di un’unica inscin­di­bile cosa e tra i molti che a quel mo­vi­mento ade­rimmo – ciascuno por­tandovi dentro suoi li­miti e sue peculia­rità – Nat ne fu il vero pa­dre, ne coltivò e con­di­vise con noi gli entusia­smi e, poi, da solo, più a lungo, ne soffrì la de­lusione per quanto di quel progetto – utopi­stico sin che si vuole – rimase ir­realizzato: i Piccoli figli di Dio con­tinua­rono a essere fi­gliastri della For­tuna. Op­pure, nella ri­trovata soli­tu­dine della sua casa alle falde di Erice, ebbe a conside­rare che se da un canto la bel­lezza dei viaggi consiste nello stesso viaggiare e le mete e i pro­getti con­tano sempre meno e sono soltanto prete­sti illu­sori, dall’altro la ri­velazione di non poter più essere quello che si è stati può pro­durre, come ri­tengo abbia pro­dotto, un crollo che in Nat fu un crollo silen­zioso.

Sfrattato dal “so­gno d’oro”, come av­viene di norma a tutti i grandi sogna­tori (e metti nel mazzo an­che Gan­dhi e Martin Lu­ther King), non volle più scrivere versi, ri­fiu­tandosi di di­ve­nire – dopo essere stato il can­tore della rivolta e della spe­ranza – il poeta della disfatta che ri­tenne pro­pria e generazio­nale,

Al “dopo” incombente, che è baratro e falla vi­stosa nel muro dell’umana sa­pienza crepato dall’incertezza e dalla paura, non ri­maneva che op­porre bibbie, pa­radisi pos­sibili e al­tri splen­didi sur­ro­gati, perché le pa­role della speranza non ba­stano più, sei solo, e da soli si muore.

 

La nostra avventura di uomini in ri­volta, com’è nella migliore tradi­zione, finì con l’essere tradita e non sappiamo da chi, proba­bilmente si è tradita da sola per so­pravvenuta stanchezza, per carenza di fede, per un nor­male processo di macera­zione di cui non ave­vamo coscienza.

Qualcuno dei compagni ci lasciava per sem­pre, altri, dopo apparizioni fugaci, scom­pari­vano assorbiti  nella poltiglia dei quoti­diani do­veri, e altri ancora, lecita­mente infe­deli, segui­vano il loro estro e di­verso destino. Il verbo re­fluire, già so­ste­gno della filosofia dei gamberi, si stava co­niugando da solo. D’altra parte, per qual­cuno che all’inizio era sembrato tra i più ar­rabbiati, l’avventura ve­niva archi­viata tra i bel­lissimi er­rori di gio­ventù: abbiamo scritto dei versi, dise­gnato pupi e, come tutti i ragazzi, ab­biamo gio­cato.

Nel Sindacato Na­zionale Scrittori al quale ade­rimmo, forse con un ec­cesso di spe­ranza, e non certo per un bisogno di “patente“, le nostre istanze parvero spesso barricadere, non soltanto per la proposta di un’editoria al­ternativa che non con­vinse nessuno e apparve inattuabile  a quanti scriventi si erano con fa­tica e lunghe cor­vée, conquistata la possibilità  – prossima o re­mota – di uno spazio. Già al­lora correva voce che seb­bene una buona pa­gina evan­gelica­mente, come la buona azione, premia se stessa, la sua bontà non è che l’ultimo dei re­quisiti per accedere ai fasti della “Editoria che conta”: oc­corre un amico bene ammanigliato o, me­glio an­cora, ap­partenere alla casta della televisione, essere per­sonaggio “visibile” (anche con ruoli umili  e modesti come venditore di pi­gnatte, detersivi o materassi): perché l’autore “invisibile” magari scriverà meglio  ma vende di meno. Sono le dure leggi del mer­cato, dura lex sed lex.

L’idea di una nostra coope­rativa che pub­bli­casse nostri libri pre­sentava, in ef­fetti, molti li­miti oggettivi e de­stava più di un so­spetto: era­vamo sì con­vinti as­ser­tori di un’editoria alterna­tiva, ma se Ei­naudi, Fel­tri­nelli o Monda­dori ci avessero fatto un cenno non l’avremmo (e vo­lentieri) mandata al dia­volo?

A parte ciò, non si trattava soltanto di stam­pare libri, che di buoni stam­patori ne esi­stono anche da queste parti, ma di pro­porli e imporli al mercato li­bra­rio at­tra­verso un’idonea organiz­za­zione, e nes­suno di noi, mastri di penna sprov­veduti di pur mi­nime virtù mercantili, era bravo per que­ste cose. La pro­posta ri­scosse qual­che momentanea sim­patia, ma si trattò di sim­patia umana per noi por­tatori di un’idea nuova e vel­leitaria, a suo modo sessan­totte­sca, che si ac­cor­dava a quelle che cor­revano in quei giorni pazzi e fe­lici. La Fantasia non era ancora andata al potere ma si era candidata a farlo.

A ripensarci, non ritengo, comun­que, che vo­lendo fare una cooperativa edito­riale o con altri inte­ressi do­vessimo dele­garne il Sin­da­cato o chie­dergli l’imprimatur, la benedizione e il con­senso.

 

Fu a quel punto, credo, che Nat, te­stardo e in­ge­nuo, diede vita alla Co­ope­ra­tiva Anti­gruppo che fu un nuovo ponte tra la Sici­lia e gli States, una ulteriore oc­ca­sione per cono­scere po­eti come Laura Boss, Ma­ria Gil­lan, Arthur L. Cle­mens ma anche i nuovi po­eti scoz­zesi Duncan Glenn, Hugh Mac Diarmid, Alexan­der Scott:: un po­eta che piange per Ja­yne Man­sfield che ac­comuna, per analoga fine, una sciarpa che le stringe la gola, a Isa­dora Duncan che nella poe­sia La dan­zatrice morta, balla al ritmo dei sette­nari ai quali anch’io, nella tradu­zione, ho messo mano.

La Cooperativa Antigruppo, forte­mente voluta da Nat, prosegue l’opera ini­ziata con la Terza pagina di Trapani Nuova, intensifica i rap­porti con let­te­rati di ol­tre oceano e io stesso sono chiamato a presen­tare a Erice il libro di Laura Boss Stripping sulla sponda dell’Hudson, mentre Ema­nuele Schembari pre­senterà Luce d’inverno di Ma­ria Gillan. I due li­bri, realizzati col con­corso della Cross-Cultural Communica­tions e tra­dotti in italiano da Nina e Nat Scam­macca, figurano nella collana alla quale anche le edi­zioni Il Vertice, da me di­rette, forse misero mano. Non lo so, lo leggo sulla coper­tina dei due volumetti e so che era nelle gene­rose abitu­dini di Nat ci­tarci tutti, coinvolgerci e darci spa­zio nelle sue ini­ziative.

Parlo della Cooperativa Antigruppo dagli inconsi­stenti esiti com­mer­ciali per dire di ul­te­riori occa­sioni d’incontro cer­cate e tro­vate da Nat Scam­macca con l’aiuto solerte di Nina, sua moglie, dopo che Nat aveva la­sciato Pa­lermo e, Ulisse sedentario, rimpian­gendo forse le anti­che pro­celle, si era ritirato nella sua villa alle falde di Erice a parlare con le sue rose. Ne parlo per dire della sua genero­sità, quel suo non ne­gare spazio a nes­suno, e ne fanno fede le co­pertine dei suoi libri, zeppe di nomi magari di per­sone che col li­bro non hanno niente a che fare, rese vi­sibili e “pub­blicizzate” per il poco o molto che era nelle sue possi­bilità.

 

Ho detto prima che non mi è facile par­lare di Nat senza do­ver parlare dell’Antigruppo e vi­ceversa, e, ri­pen­sandoci, non me ne dolgo se conside­riamo il lavoro vera misura dell’uomo, e, nel caso di Nat, il suo la­voro di ope­ratore nella cul­tura e quello del po­eta, che, a detta di Quasi­modo, è ope­raio dei so­gni, e per Giosuè Carducci un “grande artiere”.

“Operaio di sogni” o ”grande artiere”, Nat trovò spesso accenti dolcissimi quando nei suoi versi indugiava a parlare degli affetti fa­miliari, rivelando della sua sensibilità risvolti fragili e profondi, o quando l’approssimarsi del Natale gli apriva nell’anima ampi spazi di neve, e la no­stalgia (“che brutta cosa ad averla, si­gnore!”) riu­sciva a non farsi pianto: “Oggi non frugherò vecchie memorie / non oggi – stiano pure a scintillare / solo per gli altri i lumi di Natale. / Non debbo ora fer­marmi – per so­gnare. // Ma come impe­dirò che questo sangue / scandisca i canti di un tempo? Se resto / senza pensare, ri­sento chi sono: / uno che –  alla deriva – muta presto…”

Più che un accenno, uno studio appro­fon­dito di cui onestamente non mi ri­tengo ca­pace, meriterebbero le poesie di Nat, raccolte in tre volumi sotto il titolo di Eri­cepeo, che viene ad ampliare lo spazio de­gli interessi estetici e ide­ali a prima vista de­stinato a un fare poesia per spinta populi­stica o impegno sociale. Il ti­tolo, a mio av­viso, svela un ulteriore aspetto di Nat Scammacca, del quale Calogero Bonavia apprez­zava la de­licatezza dei sentimenti fami­liari, come se nel cuore dell’uomo in rivolta abitasse, con Pro­meteo che ruba il fuoco all’Olimpo per farne dono agli uo­mini, un’anima tutta mediterra­nea che su­biva il fa­scino degli antichi miti e delle sto­rie che hanno avuto per scenario que­sta parte del mondo e il no­stro mare, a esse parteci­pando:  “Ho can­tato che sono greco. / Ho sba­gliato?”

Gli sforzi per organizzare un convegno sulle “Origini siciliane dell’Odissea” secondo una intuizione di Samuel Butler ripresa da L. G. Pocock (The sicilian ori­gin of the Odyssey), ne sono un segno inequivocabile e denunciano una convin­zione, condivisibile o meno, che attrasse a Trapani, a discuterne, studiosi siciliani e del Nuovo Mondo.

Ma, tassello non secondario in questa fi­gura composita, con­tradditto­ria e molte­plice di po­eta, non va taciuto un sentire som­messo di va­lenza esi­sten­ziale che ri­troviamo in più pagine, dove la rivolta sembra ansiosa di mu­tarsi in con­senso verso la vita, la terra e i suoi doni, un amore per le pic­cole e semplici cose, ciò si co­glie spe­cial­mente in talune delle magi­strali tra­du­zioni dall’inglese, di sue po­esie, a opera di Ema­nuele Mandarà che di Nat Scammacca fu lettore sen­sibile e accorto.

 

Di vivaci polemiche, letture e discorsi – a ri­cor­darle – si ali­menta­vano le sere del vino sulle quali Nat scherza in quel libro del ‘75, suo quanto no­stro, ed è nello stesso libro che mi at­tribuisce qualità “ari­stocra­tiche” che non ri­co­nosco per mie, sebbene debba am­mettere, di non riuscire, malgrado la buona volontà, a bere Coca-cola direttamente dalla lattina, fare ressa e sgomitare ai buffet, apprezzare certi “ca­pola­vori” che la tivù produce e la tivù esalta come opere di shakespeariana ascen­denza, per non dire dei bic­chieri di carta che mi danno tri­stezza: limiti o virtù in­suf­ficienti, co­munque, a fare di uno come me un aristocratico, sia pure con at­tenuanti “pro­letarie”.

“Devo dire che mentre Ignazio Apol­loni è un ari­stocratico in camicia bianca con animo di proletario, Alan Ladd, alias Carmelo, è un pro­letario dall’animo ari­sto­cratico”, annota Nat Scammacca.

Questa storia dell’aristocratico mi per­se­guita, assieme alla nomea di superbo forse per­ché as­socio all’idea di “uomo” quella di “ani­male a schiena dritta” e provo di­sprezzo – a volte pena – per tanti boriosi leccaculi, fieri dei loro suc­cessi da nulla.

Le zuffe per un recital organiz­zato da Paul Vangelisti da tra­smet­tere via radio negli States, e forse mai andato in onda, non mi videro tra i protagoni­sti. “Per me una bella fanciulla e un liuto sul lembo del prato son mo­nete sonanti: a te la cam­biale del Cielo!” avrebbe detto Omar Khay­yam. Anche per me una fanciulla, con o senza liuto, valeva e vale più di mille im­proba­bili ed eventuali americani che ascol­tino senza ca­pire, più di una cambiale firmata da Paul Vangelisti.

Ma Nat mi vo­leva bene come aristocra­tico e come proleta­rio, forse perché con me entrava nel di­scorso dell’Antigruppo (dovrei dire nella pole­mica) la realtà di una Sicilia interiore e il mondo delle miniere dal quale provengo. “La miniera gli si in­cupi­sce nell’anima, inghiotte la lette­ratura oleogra­fica di una Sicilia fe­lice, sola­re, elle­nica, mediter­ranea, co­mun­que mi­tica: ri­mane ap­pena un lembo di cielo az­zurro, lassù in alto a di­fen­dere in extremis la speranza di Cià­vola…” aveva scritto Santo Calì a pro­posito di al­cune mie pagine, dove di mi­niere si parlava, e non per “sen­tito dire”, apparse in quella sta­gione che fu, non sol­tanto per Nat, Gianni Die­cidue e Ro­lando Certa, una sta­gione d’amore.

Fu sta­gione di entusiasmi in cui, ad al­cuni di noi, parve possi­bile mu­tare il mondo e le sue sorti e che ciò po­tesse es­ser fatto da noi, con gli stru­menti fragili di cui disponevamo: spade di legno, anzi di cristallo contro la corazza della cupidigia,  dell’avidità, dell’egoismo e della stu­pidità – in poche pa­role, il si­stema, l’ establi­shment, come lo chiamava Nat.

Ci abbiamo provato per ri­trovarci “come ma­ghi che abbiano scordata la for­mula, a guar­dare dentro bocce di cri­stallo i volti dei ragazzi d’una volta assieme ai quali non sal­vammo il mondo…e il mondo, intanto, strappa­toci di mano, sfera di neve, sfera di fuoco e neb­bia, se ne è andato lon­tano. Ri­mane un ricordo di un­ghie spezzate, un sa­pore di zolfo, la scon­fitta e una sequela vana di brusii a spie­gare per­ché non si è fe­lici”.

 

Mi accade ancora di citarmi, per antico vi­zio, e vorrei tornare a quella casa di Pa­lermo – Via Duca della Verdura, 27 – la casa di Nat, dove leggevo miei versi e mi scolavo il suo vino, non due bot­tiglie ma quasi, per parlare all’amico venutomi a mancare di pro­getti, di li­bri e di poe­sie: conversazioni che ra­ra­mente si muta­rono in dispute, anzi qualche volta ce­det­tero alle istanze del gioco, al biso­gno di allen­tare le ten­sioni: – Carmelo, se tu do­vessi buttare in mare uno dei tuoi libri, quale butteresti?

– Ne butterei uno dei tuoi! – rispon­devo.

Si metteva a ridere. Ci accordavamo, poi, per buttare in mare il libro di qual­cuno che non era dei nostri, meglio se autore di strom­bazzati best seller (l’arte della scrit­tura non era ancora pervenuta alle glorie e ai fasti odierni, e pensare di buttare in mare un libro era ancora proposito possi­bile, bizzarro sin che si vuole ma possi­bile).

A volte chiedevo scherzando: – Ne but­tiamo uno di Se­ba­stiano Ad­damo?

– No, Sebastiano è amico mio.

Finiva che in mare non ne buttavamo nes­suno, ce ne siamo riempite le case, gli scaffali, la vita; li ab­biamo amati, li ab­biamo letti, ne ab­biamo scritto alcuni affi­dandoli – senza but­tarli – al mare ma­gnum della carta stampata spe­rando che qual­cuno li leg­gesse, possibil­mente con amore. Forse dovremmo chiedere scusa al mondo che è rimasto triste­mente il mondo di prima: un posto dove se­minare parole e piantare spe­ranze che sten­tano a crescere.

 

Lunedì di fine ottobre, è un giorno chiaro – non è autunno an­cora, l’estate in­du­gia, si al­lunga e di­stende pigra sul lito­rale, gli al­beri che in­con­triamo sulla strada che porta a Tra­pani conser­vano, verdi, tutte le loro foglie – è un giorno chiaro e a Nat sa­rebbe pia­ciuto guardare dalla sua ter­razza verso le isole, a est. L’ho ac­com­pa­gnato, invece, per la strada che s’inerpica e sale verso il ci­mitero di Erice e ho pen­sato che con lui fi­ni­vano un’avventura e un so­gno.

L’Antigruppo finiva nell’archivio della sto­ria mi­nore e la stessa Ame­rica rim­pic­cio­liva al­lon­tanan­dosi dal mio e nostro oriz­zonte.

Parlo di quell’America  ricordata da Giaime Pintor, che “non ha bisogno di Co­lombo. Essa è già scoperta dentro di noi, è la terra a cui si tende con la stessa spe­ranza e la stessa fiducia dei primi emigranti e di chiunque sia deciso a di­fen­dere a prezzo di fatiche e di errori la di­gnità della condi­zione umana”; parlo  di quell’America dei poeti che con Nat avevano portato una ventata di vi­ta­lità che ci aveva di­stolto dal se­co­lare lamento: con noi Ciàvola non si era limitato a sco­prire la luna, ma l’aveva re­cla­mata preten­dendo che fosse an­che sua: “E per­ché no la luna / se è luna / non ab­bassare gli oc­chi, non tre­mare / non avere paura del do­mani / ed accogliere il cielo / nelle mani? “

Ciàvola, con noi, nel reclamare la luna ur­lava la propria rabbia, lo sde­gno e il do­lore con­tro classi e in­dividui che lo ave­vano de­fraudato dell’infanzia e per­sino della spe­ranza, e avevano inchiodato gli orologi delle no­stre chiese, saldan­done a fuoco le lancette, a un’ora dei giorni pre­cedenti quelli della Rivolu­zione fran­cese.

Ed è mentre scrivo questo che mi ac­corgo di parlare di un’America che è sì quella ricor­data da Giaime Pintor, scoperta dentro di noi, è quella dei poeti che sen­tiamo amici ma, para­dos­sal­mente, è anche  un’altra: quella che Ro­bert Bly, un ame­ri­cano e non un comuni­sta pre­venuto,  definirà  nelle pagine dell’Antologia Anti­gruppo 73 “Madre denti fi­nalmente nuda” denuncian­done la fero­cia bel­luina,  un’America che scopriamo con dolore.

 

L’impegno sociale o la coloritura ide­olo­gica da esso assunta non devono fare pensare all’Antigruppo come a una setta di carbo­nari bi­liosi e immu­so­niti, ché spesso nel nostro fare e nei no­stri di­scorsi trova­rono spazio astromalie e favole fe­lici nelle quali Ignazio Apolloni pro­fuse la sua ine­sauribile vena con esiti diver­titi, di­ver­tenti e a volte corrosivi.

Il piacere di­screto per la speri­menta­zione, l’invenzione ludica e linguistica, l’ironia dei no­stri di­scorsi erano il lievito e il sale di un fare tal­volta imperti­nente, per non dire di certe fe­scen­nine licenze pre­senti soprattutto nelle pa­gine dialettali di Santo Calì, alle quali Franco Di Marco e io dedi­cammo maliziosa at­ten­zione: c’un corpu di trin­cettu ziu Giuvanni…

Una mia parodia di Divina Com­media, li­mitata a sei o sette canti, dove, in terza rima, prendevo in giro alcuni dei nostri amici, entu­siasmò tanto Nat da indurlo a stamparla in ap­pendice del terzo volume del suo Ericepeo.

Ci fu­rono – e come negarli? – momenti di inge­nuità, qualche incomprensione, qual­che equi­voco, un lieto disordine. Per qualcuno ci fu­rono errori e forse fu tutto un errore, ma quell’ errore amammo e lo vivemmo con onestà fa­cendo di esso  lo scopo nobile delle nostre esi­stenze, la nostra verità.

Ora tutto tornava nell’ordine e la “Re­stau­ra­zione” temuta e av­versata da Giu­seppe Zagar­rio, di­veniva un fatto inconte­sta­bile. Non rima­neva che sep­pel­lire i no­stri morti, licenziare am­bi­zioni e pro­getti, trovarci una comoda nicchia nella “polti­glia” degli istituti.

Mentre con Nicolò D’Alessandro, acco­dati al cor­teo, sa­livamo verso Erice, ho pen­sato che della no­stra utopia (tale nome a volte as­sume la spe­ranza) qualcuno nei giorni a ve­nire ne avrebbe ancora par­lato confon­dendo i no­stri con i casi al­trui, sba­gliando luoghi, nomi e date, mi­schiando titoli di li­bri, at­tri­buendoci opere, me­riti o colpe che non ci ap­parten­gono, toglien­doci o do­nan­doci qual­cosa.  Una rivista di buon nome, ad esempio, già parlando dell’Antigruppo si­ciliano non fa un solo nome di quanti in qualche modo con esso ebbero a che fare. Non cita Ro­lando Certa, Santo Calì o Nat Scammaca ma ri­porta  i nomi di alcuni poeti completa­mente estranei – a volte ostili – al movimento.

Così va il mondo, perciò varrà la pena, ricor­rendo a collau­date formule, di rac­coman­dare: “Rac­con­tate di noi senza ma­la­nimo”.

 

Vorrei aggiungere che Aldo Gerbino, in un capitolo dedi­cato all’Antigruppo, si sof­ferma a parlare sol­tanto di me, unitomi al movimento quando era già attivo da qual­che anno, e non di per­sonaggi che ne avrebbero avuto maggior di­ritto come Nat Scammacca, Santo Calì, Ro­lando Certa o Igna­zio Apolloni, Crescenzio Cane o Pie­tro Terminelli (che mai mi fu amico), le­git­tima­mente considerati i “padri fon­da­tori”.

Dico questo co­sciente della mia pre­senza anomala in seno al movi­mento, non avendo avuto mai niente contro il Gruppo ’63 o altri gruppi: ognuno canta (o scrive) come sente, come sa, come può; presenza anomala,  ripeto, se una sera re­citando a Trapani, mentre tutti si da­vano un gran da fare a parlare di rivoluzione, di lotte, di sangue, io, pigro pantofolaio, insofferente a tanta rivoluzione recitata o cantata in piazza, a tanta lotta, tanto sangue, con la compli­cità di Ignazio Navarra e obbedendo ai miei istinti pa­cifisti, leg­gevo poesie d’amore – “…il giorno dopo la fine del mondo / era il cielo senza una nu­vola”- che facevano imbestialire Pietro Ter­minelli nei cui versi ipermetrici spesso regalava titolo di fasci­sta o di penniven­dolo a chiunque,  senza  esclu­dere Cesare Pavese, Giacomo Mat­teotti o Antonio Gramsci.

“Vomitevole”, era di solito il commento di Terminelli ai miei versi; io i suoi non li com­mento: non li ho mai capiti.

E mi piace aggiungere che nel 1990, in­con­trando a Pisa, in occasione di un pre­mio lettera­rio attribuito al mio libricino di versi La farfalla di Bro­dskij, Mi­chele Per­riera, quasi mio omo­nimo ed esponente di spicco del Gruppo 63, di cui per­sino i fon­datori si erano già scordati di averlo fon­dato e perché, non solo non liti­gammo ma ci trattammo con af­fettuosa corte­sia, e par­lammo di Ignazio But­titta che al tele­fono ci scambiava l’uno per l’altro.

 

Non vorrei dare l’impressione di sotto­valu­tare l’apporto, in termini di contri­buti vi­vaci e vitali, dato al movimento da altri sodali e com­pagni. E qui mi sov­ven­gono nomi ai quali va il mio affettuoso ricordo, quali Anto­nino Conti­liano, che con maggiore giudizio ha trattato dell’Antigruppo, Giovanni Lombardo, Federico Hoe­fer, Ignazio Butera, e ancora Franco Di Marco e Nicola Di Maio, protagonisti di una non insolita polemica inte­stina, culta, gar­bata e fe­roce, di quelle frequenti in un gruppo alla ro­vescia (così lo definì Cesare Sermenghi) che era, per l’appunto, un “anti­gruppo”.

Per quel che mi riguarda, le idee che ho portato ed espresso in seno al movi­mento erano, senza mutarne una virgola, quelle che avevo coltivato negli anni tra­scorsi a Caltanis­setta, dove sono nato e vis­suto per quasi qua­rant’anni, città, a sen­tire  Marco Bona­via, dove la gente vo­tava “come un sol prete” e dove avevo fre­quentato, oltre a Marco, Anto­nino Cre­mona, Oscar Carnicelli e gli amici di Nuovo Sud: una minoranza che assieme ai ragazzi del Re d’Aremi – pittori in buona parte – vivacizzava la vita della cittadina.

Dalle pagine di Orsa Maggiore, diretta da Marco Bonavia, negli anni ’50, io stesso, come mio padre ebbe a rimprove­rarmi, stavo per di­chia­rare guerra all’Inghilterra, sfi­dando il gene­rale che gover­nava Trieste, al­lora con­tesa tra gli ita­liani e gli slavi. Sempre a Caltanis­setta, avevo cono­sciuto e frequen­tato  la gente della miniera alla quale mi vanto di ap­parte­nere: “quelli che non comprano il pane, ma lo sca­vano sotterra con af­fanno, tra i maci­gni di gesso e di zolfo”. Voglio dire che avevo tutti i numeri per es­sere ac­colto da Nat come “uno dell’Antigruppo”, seb­bene qual­cuno pro­vasse a obbiettare che non ero pa­ler­mitano e qual­che altro non mi tro­vasse suf­fi­ciente­mente marxi­sta, a riprova che mal­grado pretese eu­ropeiste re­stiamo tena­ce­mente attaccati ai no­stri campanili e quest’Italia – “Ahi, serva Ita­lia, di do­lore ostello! “  –  rimane ancora tutta da fare.

Intanto è vero che non ero e non sono pa­lermi­tano, anche se a Palermo, nel ’76, du­rante un tentativo di rapina all’ufficio postale, mi hanno sparato e ferito a morte, anche se vi ho trascorso buona parte della mia vita.

 

Anch’io, se così si può dire, di città me ne porto una nel cuore, ne ho respirato l’aria, as­sorbiti gli umori.  Ogni tanto vi torno per vi­site ve­loci: un li­bro, una mo­stra o la morte di qual­cuno. Vi sono nato, ma que­sto non si­gni­fica niente: si nasce un po’ dap­pertutto, si nasce dove si può.

Un tempo, tor­nando, mi capitava di in­con­trare de­gli amici, si stava un po’ in­sieme, si pren­deva il caffè, ma non si può dire che nel se­pa­rarci entras­simo in crisi: sia io che loro ci era­vamo abituati al fatto che  fossi dive­nuto un fo­re­stiero, e tale mi sento ancora un po’ dapper­tutto.

Da qualche tempo, la mia pigrizia cerca scuse, accampa pretesti per non tor­narvi, sarà che incontro sempre meno co­no­scenti e degli amici che ve­devo al bar o in piazza Garibaldi nessuno me ne sa dire niente. Persino alcuni bar e ri­storanti di una volta hanno chiuso bottega o cambiato padrone. Dietro il banco facce nuove che ti guar­dano e non ti conoscono, barman in­diffe­renti… commessi scorbutici.

La città cri­stallizzata nel nostro ricordo muta ogni giorno, non si somiglia come a noi più non somiglia l’immagine che incontriamo nello spec­chio.

Forse è nei sogni che, però, questa città –ferma e mutevole – per la quale, come ho detto, non muoio di no­stal­gia, torna più insi­stente, quasi a far va­lere un di­ritto al quale la ra­gione vuole op­porsi. I miei sogni, in­fatti, si svol­gono in quei luoghi che mi vi­dero ra­gazzo, per quelle strade che co­no­sco (o co­no­scevo) tanto bene, po­po­late di gente che chissà ora do­v’è. Forse si tratta sol­tanto di morti ai quali il mio so­gnare re­gala an­cora una effi­mera possi­bilità di esi­stere.

Ricordo che una volta, a Natale, invitai a Caltanis­setta, dove avevo casa, Nat e Nina Scammacca.

A Nat che aveva girato il mondo, la piccola cittadina piacque, la chiesa del Colle­gio (S. Agata) con la sua gradinata gli ricordava un po’ Barcel­lona. Gli  feci cono­scere al­cuni dei miei amici nisseni: gente che scri­veva o di­pin­geva. Nat mi ce­dette tutta in­tera la “terza pa­gina” di Tra­pani Nuova che riempii con loro poe­sie e di­segni, un racconto di Nino Di Maria. Di quella pagina  ne posse­devo an­cora una co­pia qualche anno fa e la rega­lai alla biblioteca di Sommatino (Calta­nissetta) che conserva gli scritti di Nino Di Maria, l’autore de Il cam­mino della spe­ranza, che come me, e prima di me, e meglio di me aveva scritto sulla vita degli zolfa­tari.

Molti avranno veduto in Tv il bel film Il cammino della speranza che Pietro Germi trasse dal racconto di Nino Di Maria. Un bel film che a di­stanza di anni rie­sce a commuo­verci e  farci piangere. Ma pochi avranno fatto caso che né nei titoli di testa né in quelli di coda, dove sono presenti i nomi degli ammi­nistra­tori dele­gati, degli elettricisti, dei forni­tori delle cal­zature,  di segretari e vicesegre­tari della pro­duzione, di as­sistenti alla regia e atri con  incombenze mi­nori, di guar­darobieri, sarti e lustra­scarpe, di ma­stri d’ascia, fabbri e muratori, manca il nome dell’autore del rac­conto come fosse notizia irrile­vante.

Forse per­ché Nino Di Maria non fa­ceva parte di un qual­che “gruppo”, non ri­sultava iscritto a un qual­che Ordine privi­legiato (quello degli spe­ziali?) ed era, a sua insaputa e ante lit­teram, anch’egli uno dell’Antigruppo, uno di quelli di cui critici, mili­tanti o meno, dicono: “Ma cosa vuole quello lì che non s’è fatto nem­meno il Clas­sico?!”.

Qualcuno lo ha detto per­sino per Quasi­modo.

Anche di queste piccole offese e viltà del si­stema a volte si parlava nelle sere lontane, le sere del vino, quando passavo a trovare Nat nella sua casa di Palermo, Via Duca della Ver­dura, 27.

La chiave la te­neva nascosta sotto un vaso all’ingresso, appena scese le scale, in modo che se qual­che amico ne avesse avuto bisogno avrebbe potuto tro­varla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da Le sere del vino – Nat Scammacca e la stagione dell’Antigruppo

Ed. Quaderni di Issimo, Palermo, 2008